Canili

L´Italia dei canili nasce un po’ meno di un secolo fa, quando il DPR 320 del 1954 istituzionalizza la necessità detentiva per i cani liberi accalappiati sul territorio. Etimologicamente1 invece il termine canile nasce per definire l´allevamento, rafforzando il concetto che la cinofilia delle razze fonda la sua nascita su privazione di libertà e detenzione forzata a scopi lucrativi. Così, qualche decennio dopo la nascita dei club di razza e la diffusione dei primi standard, tornarono comodo quelle strutture che, con le loro file di box in cemento e la ferraglia arrugginita, per quasi quarant’anni avrebbero segnato la tragica storia dei cani in Italia: i canili municipali, contenitori di cani che dopo essere stati accalappiati venivano soppressi quando non reclamati. In alcuni casi si costruirono ex novo, soprattutto nelle grandi città, come Torino, Milano e Roma; in altri si pensò di ridare lustro a vecchi macelli abbandonati, come a Brescia, Taranto, Padova e Siracusa per citarne solo alcuni. La convergenza tra comparto allevatoriale e strutture canile ritornerà in auge quarant’anni dopo, quando la legge 281/91 avrebbe generato nuovamente la necessità di disporre di box e gabbie da riempire velocemente. Con il DPR 320 i reparti di polizia veterinaria operavano una vera e propria opera di rastrellamento, ripulendo le strade da coloro che vivevano pacificamente e in equilibrio sul territorio. Il movente di questa eutanasia di massa era la necessità di debellare la rabbia, e anche quando questa fu debellata (tramite il vaccino e solo nel 1987!) gli accalappiamenti continuarono per rifornire i laboratori di vivisezione che in quegli anni agivano indisturbati. Con una ragione sanitaria e di tutela della salute pubblica, cominciava così “la guerra ai randagi”, un processo non solo di brutale repressione di tutti quei cani che da migliaia di anni vivevano liberi sui nostri territori (un numero imprecisato di soggetti che potrebbe variare da qualche centinaia di migliaia fino a qualche milione), ma anche di demolizione di un’intera cultura di convivenza con questa specie.

Il canile si struttura – alla sua nascita ma purtroppo ancora oggi – innanzitutto come un dispositivo sanitario e successivamente come un modello antropocentrico di gestione e convivenza, funzionale a cambiare l’identità sociale del cane, da territoriale a oggetto di proprietà intesa come sua unica dimensione di esistenza.

Ciò che in altre parole si è messo in discussione, a tappe progressive e in modo sempre più capillare e pervasivo, è stato infatti un modo di vivere con i cani, tipico di una società prevalentemente rurale e contadina quale era la nostra fino al secondo dopoguerra.

Era infatti ampiamente diffusa fino agli anni cinquanta e oltre, una modalità di convivenza tra cani e umani completamente aliena alle odierne pratiche di gestione e conduzione, una modalità non basata soltanto sui criteri di controllo e sicurezza pubblica, ma anche su una libera condivisione degli spazi. Fino a metà del 900 la presenza di gruppi più o meno numerosi di cani sinantropici2 era abituale, così come quella dei cani padronali liberi sul territorio. Un modello di cui i cosiddetti “cani di quartiere”, ancora oggi presenti dove le comunità umane lo concedono, rappresentano forse un ultimo vestigio e una propaggine di qualcosa che va ormai scomparendo. Ormai ovunque nel mondo globalizzato l’esistenza dei cani liberi – considerati reietti, cani di serie b, da uccidere, torturare, rinchiudere o salvare nelle case e nei canili – viene sostituita dalle razze, ipertipi selezionati geneticamente da affidare alla gestione dell’umano.

Anche per questo prendiamo distanza dall’idea del randagismo come “piaga sociale” – diffusa da zoofili e welfaristi – riconoscendone invece il valore come esperienza di affrancamento dalla proprietà, come tentativo di combattere i modelli di integrazione e assimilazione alla società antropizzata, come esempio di una convivenza multispecie che può rispettare in modo autentico la diversità e la soggettività. Non crediamo che la soluzione sia l´oppressione e la reclusione delle vittime, non molto diversamente dai casi di violenza di genere, anche nelle situazioni più critiche che possono generare comportamenti di rifiuto o maltrattamento nei confronti dei cani.

Passano 37 anni dal DPR 320, 37 anni in cui viene ucciso un numero imprecisato di cani. E arriviamo al 1991, quando con la “rivoluzionaria” legge quadro 281 si introducono concetti nuovi sulla spinta dell’associazionismo protezionista e animalista: i cani non si possono più sopprimere3, ma vanno curati e soprattutto riaffidati.

Da quel momento, mentre le associazioni si concentrano su azioni di soccorso e aiuto (almeno nelle intenzioni e con tutta l’ambivalenza che il concetto di aiuto porta con sé) dall’altra parte nasceva l’imprenditoria del randagismo che continua – ancora oggi indisturbata e con ingenti guadagni – l’operazione di eradicazione dal territorio di ogni cane che non sia accompagnato, gestito e sotto il completo controllo di qualche essere umano; un’operazione che frutterà diversi miliardi di euro in trent’anni. All´inizio si è assistito all´assegnazione indiscriminata delle convenzioni e il meccanismo di aggiudicazione degli appalti si è inevitabilmente trasformato nel solito sistema affaristico-clientelare. Nei primi dieci anni è avvenuto quindi un vero e proprio processo di ’’ingrassamento’’: i gestori accumulavano cani perché la legge glielo consentiva e con l’avvento del microchip iniziarono anche i giochi delle tre carte, cani nei freezer e microchip nei cassetti.

Potremmo fare una lunga lista di casi4, anche molto recenti, di canili sequestrati, di reati caduti in prescrizione e veterinari scampati alle condanne poi divenuti dirigenti di altri canili, di condanne esemplari date in primo grado che si trasformano in assoluzioni per non aver commesso i fatti. Il prezzo da pagare in cambio di una vita risparmiata, per molti cani è stato quello di una vita regalata all´istituzione canile che quando va bene ti mantiene in vita perché rappresenti un guadagno e quando va male ti lascia anche morire. La 281 ha fermato l´inferno delle camere a gas, ma nei suoi inevitabili vuoti legislativi – affidati e scaricati a Regioni e Comuni – ha permesso qualcosa di paradossalmente più terribile: ha creato il falso mito dell’emergenza randagismo. Da quel momento in poi, infatti, l´urgenza sarebbe stata riempire i canili.

Il canile è ancora il business che sta dietro alla (mala)gestione del problema randagismo a vari livelli: amministrazioni conniventi, Asl che dormono sonni decennali, criminalità organizzata che si organizza al posto delle istituzioni5.

La situazione attuale vede realtà molto variegate da nord a sud e anche all´interno di una stessa regione, così come diversa è la distribuzione dei canili: il sud infatti ospita il 75% del totale dei cani in canile sul territorio nazionale. Molti canili ancora oggi sono concentrativi6, dislocati in zone raggiunte da strade al limite del praticabile, canili in cui sono stipati anche più di 1000 individui in spazi ristretti, catturati su commissione tramite le liste di accalappiamento.

Gironi infernali in cui solo il rumore degli abbai toglie il fiato. “Luoghi” ostili per cani e umani, fortini a difesa di regni economici.

Ma i cosiddetti canili lager sono solo l’iceberg di un problema; alla sua radice restano una visione antropocentrica della relazione cane-umano – di cui il canile è l’espressione strutturale e architettonica – e una legge che lascia spazio a ogni tipo di improvvisazione.

I criteri per la costruzione e la gestione dei canili sono stabiliti dalle varie Regioni e attuati dai Comuni; quindi sono molto variabili, ma la legge si è concentrata solo su strumenti sanitari e tecnico-operativi che, pensati per garantire il benessere, hanno finito per diventare strumenti di controllo e contenimento: il canile nasce e resta un presidio a tutela della salute pubblica.

I capitolati stessi, anche se garantiscono i livelli minimi di benessere, sono inadeguati perché ispirati unicamente a una logica sanitaria e di tutela, non molto diversa da quella che ha ispirato la costruzione dei canili negli anni Cinquanta, necessaria ma non sufficiente e in molti casi disattesa.

Solo vaghe indicazioni riguardo al principale mandato di un canile: preparare i cani all’adozione e attuare prassi di affido efficaci e rispettose dell’etologia del cane. Se infatti negli anni il lavoro serio e instancabile di molti volontarx e lo slogan “adotta non compare” hanno portato molte persone verso la scelta etica di restituire libertà a chi l’aveva persa, è altrettanto un dato di fatto che le vendite degli allevamenti negli ultimi 20 anni sono aumentate del 300%. Sembra incredibile ma è ancora diffusa la narrazione discriminatoria per cui il cane di canile “è difettoso”, ha problemi fisici o caratteriali, in qualche modo è impuro, favorendo l’idea che l’acquisto di un cane sia una scelta garantita. La 281 è stata sicuramente una legge d’avanguardia nei suoi principi ispiratori ma non è stata altrettanto efficace nella loro concreta attuazione e nella direzione della tutela animale, nel suo mandato etico principale – l’adozione – e neanche nel miglioramento della nostra convivenza con i cani come dimostrano impietosamente i numeri di questi 34 anni. Mentre infatti il numero dei cani registrati all’anagrafe negli ultimi 20 anni è triplicato, quello dei prigionieri nei canili è rimasto sostanzialmente invariato: circa 130.000, esclusi ingressi e uscite (fonte SINAC/Ministero della Salute). Qualcuno potrebbe considerare un dato positivo il fatto che non si registra un aumento della popolazione detenuta proporzionale all’aumento del numero dei cani registrati in anagrafe. A noi invece questo dato dice solo una cosa: nei canili ci sono i cani che devono garantire la sopravvivenza di quello che è l´ennesimo comparto economico della Pet Economy.

La base politica del progetto della 281 era anche il contenimento della popolazione canina, in relazione alla quale i promotori furono lungimiranti nelle intenzioni ma incapaci nel tempo di spingere le amministrazioni ad attuare soluzioni funzionali all’obiettivo e rispettose del benessere e della biodiversità canina. Il risultato? La quasi scomparsa dei cani liberi con le loro caratteristiche di equilibrio nelle convivenze intra e interspecifiche e la proliferazione di cani di razza e incroci vari, nati per errore o per soddisfare esigenze umane. Anche per questo i cani che si potevano incontrare in canile negli anni immediatamente successivi all´introduzione della 281 erano molto diversi da quelli di oggi. Quelli di allora erano per lo più cani che da generazioni vivevano in sinergia con umani e altri animali, in ambienti con una densità demografica molto minore e diversa da quella attuale. Oggi troviamo molte più rinunce di proprietà – che dovrebbero essere rinominate rinunce di responsabilità – di cani di razza o incroci di quelle stesse razze rese ipertrofiche nelle loro motivazioni dalla selezione genetica razziale.

Crediamo che ogni canile, oggi come ieri, si configuri come un dispositivo che contribuisce alla discriminazione e all’oppressione di cani liberi, meticci e di tutti i cani che escono dalla dimensione della proprietà, così come quelli che ne escono perché “rinunciati”.

I canili sono non-luoghi di enorme sofferenza, fabbriche di speranza e disperazione, dove finiscono gli indesiderati e gli incorreggibili su cui i millantati strumenti di gestione e integrazione hanno fallito.

Il canile appartiene a tutti gli effetti alle istituzioni totali, in cui viene operato il controllo del tempo, del corpo e delle relazioni da un “regime chiuso e formalmente amministrato”,7 che produce alienazione e dissociazione. Le istituzioni totali organizzano i bisogni primari degli internati e le loro interazioni sociali, mortificano il soggetto e lo costringono a un adattamento su base traumatica.

La prima operazione che fai con il carcere è prendere una creatura relazionale e metterla in un luogo dove il primo atto è la mortificazione sociale, nel senso che muoiono i suoi legami sociali.8

Nessun recupero è realmente possibile per un essere relazionale in un regime di privazione sensoriale e sociale.

E’ necessario quindi fare una riflessione più ampia sui meccanismi che portano i cani a entrare in canile, dall’incredibile facilità della rinuncia di proprietà (un dispositivo che evita l’abbandono in autostrada ma non evita l’abbandono in sé) alle liste di accalappiamento, dalla produzione incontrollata di cani negli allevamenti alle cucciolate casalinghe.

Agevolare il sistema di adozioni senza scalfire la macchina cattura cani è una strategia che i numeri stessi dimostrano perdente. Adottare un cane, lo sappiamo bene, è un atto generoso e altruista, ma fallace se si costituisce nell’ideologia che puntare sullo sgomento e sul senso di colpa possa svuotare i canili, perché a essere realisti non esiste una famiglia per ognuno dei circa 130.000 reclusi. A questo si aggiunge il problema dell’aspettativa umana e la deriva del concetto di adozione responsabile o consapevole che si è trasformata in adozione “sicura”. La necessità di responsabilizzare le persone su ciò che significa condividere la vita con un cane – portata avanti con non poche derive anche da una certa cultura cinofila – si è tradotta nella pretesa delle persone di adottare “senza sorprese”. La necessità di riconoscere che i cani sono individui con bisogni diversi in relazione al contesto di vita in cui si troveranno si è tradotta nella ricerca dell’incrocio perfetto cane proprietario. Quello che chiediamo ai cani – una relazione immutabile nel tempo – è qualcosa che non esiste nella vitalità dei legami che creiamo come esseri sociali, un’aspettativa irrealistica oltre che totalmente ego-centrata. Qualunque spinta solidale, qualunque motivazione legata al desiderio di liberare rischia di essere seppellita dallo standard dell´indice di adottabilità. E degli altri che ne facciamo? Quelli che non si divertono a giocare, quelli che non vogliono e non vorranno mai accompagnarvi a prendere un aperitivo, quelli che hanno paura anche della loro ombra, quelli che non vogliono essere toccati, quelli che mordono, quelli malati e quelli anziani? Sono loro quelli che garantiranno la sopravvivenza delle strutture mentre noi andiamo alla ricerca della relazione perfetta.

Rufus: gigante, maschio, adulto, attaccabrighe, non collaborativo. Indice di adottabilità pari a zero. Starà sempre in un box. Possiamo contare solo in un colpo di fortuna per il suo affido. Quasi di sicuro non lo adotterà un educatore, perché sapere cosa prendi è anch’esso fonte di discriminazione9.

Non ci possiamo più soffermare sulla sensibilizzazione ad personam ignorando il problema politico e fondante dei canili e i meccanismi che li rimpolpano quotidianamente. Le discriminazioni e le ingiustizie operate nei confronti dei cani e le loro sofferenze hanno un’origine strutturale nella società. Pensiamo quindi che i cani vengono condannati anche se innocenti perché non è tanto il loro comportamento individuale a deciderne le sorti, quanto le minime possibilità di espressione di sé concesse dalla nostra organizzazione sociale e dalle sue norme securitarie. Non è vero che scontano una pena senza colpa, la loro colpa è quella di essere cani in una società che ha tradito il patto millenario di rispetto e convivenza reciproca.

Dobbiamo fare uno sforzo per comprendere e contrastare i meccanismi di “canilizzazione”, di cui le nostre aspettative egoiche, infantili, terapeutiche e le nostre richieste performative sono una parte fondamentale di cui siamo responsabili. Perché mentre noi torniamo a casa, loro, i cani, restano lì. Ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Nessuna compagnia umana, nessuna casa, nessun box (per quanto grande e confortevole), nessun rifugio, potranno ridare ai cani la vita che sceglierebbero in autonomia.

Nel tentativo di abbellire le prigioni piuttosto che agire sui meccanismi che le riempiono, negli ultimi anni abbiamo assistito anche alla nascita di un altro fenomeno: quello del Parco Canile, un mito da sfatare sostanzialmente per due motivi.

Il primo è che sono sorte file di box identiche a quelle dei canili periferici suburbani in aree verdi che hanno come scopo principale nascondere la realtà reclusiva dei cani e come compito quello di allietare la permanenza di operatori cinotecnici, animalisti, cinofili e frequentatori vari, lasciando a disposizione degli animali i prati all’inglese in occasione dell’Open Day annuale.

Il secondo motivo è che i cani non qualificano se stessi e il loro benessere in relazione all’ampiezza e alla bellezza naturale del loro habitat. Siamo animali sociali che traggono soddisfazioni e felicità dalla qualità e pienezza delle relazioni, per quanto l’ambiente in cui esse si espletano costituisca un fattore propulsivo di fascino e prosperità. Essere concentrati in un ammasso di cemento o in un parco per i cani si ascrive semplicemente a due tipologie diverse di disagio

Fino a quando dovrà esistere, il canile dovrebbe ripensarsi come presidio di solidarietà, una rete al servizio del cane e della relazione con l’umanoquando questa si rompe o vive delle difficoltà.

Nella speranza che i canili possano chiudere un giorno e per sempre, essere aboliti come soluzione sociale, superati nella necessità organizzativa umanista e percepiti per quello che sono: morte in vita.


1 s. m. [der. di cane1]. – Luogo, costruzione apposita, dove si tengono o si allevano i cani, e l’allevamento stesso; c. municipale, per i cani randagi o raccolti dal servizio antirabbico. Anche, covile per il cane, per lo più formato da un casottino di legno (in questo sign. è più com. cuccia). In senso fig., spreg., di stanza o letto in pessime condizioni: una stanza ridotta a un vero c.; Vidi posto un lettuccio, anzi un c. (Berni). Cfr. treccani.it

2 Si definiscono sinantropici quegli animali che vivono nelle vicinanze degli ambienti umani ma evitando con questi un contatto diretto

3 Fanno eccezione alcuni casi, disciplinati dalla stessa 281/91: possono essere soppressi gli animali gravemente malati, incurabili o di comprovata pericolosità. Cfr. https://ali.ong/rivista/diritto/la-legge-vieta-la-soppressione-di-animali/

4 Canile di Sant´Ilario dello Jonio: il primo grado di giudizio sequestra e condanna il canile lager a seguito dell´operazione “Dog center”. In appello la sentenza viene ribaltata, scagionando tutti gli imputati e riassegnando loro tutti i beni.
Canile di Marigliano: sequestrato nel 2010 (circa 300 animali maltrattati e sofferenti, furono ritrovati corpi seppelliti che presentavano tagli sul collo, per probabile asportazione di microchip) ma la Asl non revocó mai l´autorizzazione sanitaria alla struttura, consentendo cosí al titolare di partecipare, qualche anno dopo, alla gara d´appalto per l´assegnazione dei cani del Comune di Pompei, affidatagli grazie al considerevole ribasso dell´offerta.
Canile di Rieti (Colle Arpea): a processo per maltrattamento e uccisione di animali, il proprietario e il gestore della struttura vengono assolti da ogni accusa “perché il fatto non sussiste”.
Canile Europa 2000 di Olbia: dopo il sequestro del canile, per cui il gestore è stato accusato dagli inquirenti di una serie di pratiche illecite, il tribunale del Riesame ha accolto il ricorso degli indagati che sono tornati in possesso dei loro beni e dell’autorizzazione a praticare l’attività.

5 La LAV nel 1998 ha istituito un osservatorio sulle zoomafie, un organismo che si occupa di monitorare, analizzare e descrivere sotto il profilo criminologico lo sfruttamento degli animali da parte della criminalità organizzata. Zoomafia significa “sfruttamento degli animali per ragioni economiche, di controllo sociale, di dominio territoriale, da parte di persone singole o associate o appartenenti a cosche mafiose o a clan camorristici”. Questo giro di affari è stato stimato intorno ai 4 miliardi di euro di cui una buona parte proviene dal business dei canili.

6 Durante il procedimento giudiziario successivo ai sequestri di due canili pugliesi, tra cui il famigerato canile di Brindisi che ospitava 700 cani con 200 posti a disposizione, si è espressa la Cassazione il 16 Settembre 2014. Per i giudici, anche in assenza di lesioni, il sovraffollamento in canile è già reato.
Cfr. https://www.anmvi.it/images/Area_Legale/2014/N._30_SETTEMBRE_OTTOBRE_2014.pdf

7 Goffman E., Asylums: le istituzioni totali, Einaudi, Torino 2001.

8 Valentino N., 1* Incontro di Liberazione del Cane, 2023

9 Majocchi D., Cani ai margini, Prospero Editore, Novate Milanese, 2023